Questione di Con-Tatto

spinte
Capitolo tratto dal testo “Nato prima del tempo” di Elena Balsamo, 2012 Ed. Il Leone Verde

Questione di Con-Tatto

La mia conoscenza con Roberto Rossini, neonatologo all’Ospedale S.Orsola di Bologna, risale ai tempi della specializzazione.

Di lui conservo un ricordo indimenticabile che rimarrà per sempre impresso nella mia mente e nel mio cuore: eravamo in sala operatoria, io come giovane tirocinante, lui come medico di turno chiamato ad assistere un parto cesareo. Il neonato appena fuoriuscito dal ventre materno era cianotico, segno inequivocabile di una difficoltà di ossigenazione, il corpicino molle e ipotonico non faceva presagire nulla di buono… La tensione cominciava a crescere perlomeno in noi studenti alle prime esperienze… Roberto invece manteneva una calma serafica: prese in mano il bambino e cominciò lentamente ad accarezzarlo, con movimenti ritmici e una grande delicatezza. Non fece null’altro se non quello e a poco a poco il neonato cominciò a riprendersi, a distendersi, a respirare e anche il suo colorito gradatamente ritornò normale. A me sembrò un vero e proprio miracolo e da allora porto in me l’immagine della potenza del tocco dolce e del contatto gentile…

Elena Balsamo: Roberto, potresti descrivere ai nostri lettori il tuo modo così speciale di assistere i neonati?

Roberto Rossini: Risponderti per me costituisce una sfida, perché scrivere non e’ facile come per te: le tue parole scorrono via, come le onde del mare le une sulle altre, senza fermarsi… Per me e’ più difficile non solo perché mi costringi a guardare come lavoro ma anche come lavoriamo noi medici insieme in ospedale e anche con le altre figure professionali presenti intorno al bambino: ostetriche, infermieri/e, assistenti, tecnici, altri operatori, psicologhe, assistenti sociali. Però è una sfida che accolgo volentieri raccontandoti quello che mi sembra di riuscire a fare. Gli anni che porto, trascorsi mi pare in fretta, tra pochi giorni sono 60… : molti li ho passati ad osservare i neonati quelli sani appena nati, da poche ore o giorni, in braccio alle madri o nelle culle, arrampicati sui padri in cerca di consolazioni o “a passeggio” coi nonni nelle culle nei corridoi dell’ospedale. Molto ho osservato anche dei neonati più o meno malati e soprattutto di quelli nati prima del tempo, quelli che molti chiamano “prematuri” e che noi medici preferiamo chiamare “pretermine”, perché possiamo essere più precisi e aggiungere il numero di settimane di durata della gestazione. Mi e’ venuto spontaneo iniziando a raccontare del mio lavoro parlare del bisogno di guardare – osservare il neonato – prima di fare qualsiasi mossa!
Molti, quando sanno che sei pediatra, subito ti dicono: “ma come fai? .. così piccoli, e non parlano, come fai a capire quale disturbo presentano ? “
I pediatri e soprattutto i neonatologi ricevono molte informazioni guardando; solo dopo procedono nella visita “toccando” e “auscultando”. Non voglio iniziare un piccolo manuale di semeiotica ma giusto dare un esempio: valutare il colorito della cute, la sua perfusione, dice molto in termini di buona ossigenazione e in generale di benessere! Poi alla fine di tutto sono necessari a volte anche gli esami del sangue, a volte ma non sempre. Tutto origina sempre dalla pelle, dalla sua osservazione, la pelle che tutto contiene e tiene insieme – organi grandi e piccoli ed apparati così diversi- la pelle che ricopre, ma non nasconde, può dirci come stanno gli organi interni, come stanno funzionando e spesso ci avverte se dobbiamo intervenire.
Questo livello di osservazione mette in grande comunicazione con il neonato che abbiamo dinnanzi, in con-tatto oserei dire. L’occhio allenato del medico può facilitare questa esperienza. In realtà non e’ tanto l’essere medico quanto la capacita’ di stare e di mettersi in ascolto e questa esperienza la si può solo fare iniziando con se stessi, poi con l’altro da noi. Non e’ un allenamento breve e neppure prevede un termine, anzi e’ auspicabile ci accompagni tutta la vita. Più l’approfondiamo e più la troviamo efficace per noi, più migliorerà la nostra capacita’ di ascolto degli altri.

Elena: Potrei dire che il tuo approccio è molto “montessoriano”: osservare il bambino e rispondere ai suoi bisogni… Ci puoi dire qualcosa di più specifico sullo sguardo ?

Roberto: Lo sguardo è importantissimo: è molto di più di ciò che l’organo della vista ci permette di “vedere”. Sappiamo che il neonato a termine è in grado di vedere bene gli oggetti e quindi anche il volto umano fin dalla nascita, posto che la distanza non sia oltre i 20 cm circa e non ci sia una luce troppo intensa nell’ambiente. Allora potremmo osservare che il piccolo ci fissa ma essendo un poco “ipermetrope” (miope) faremo fatica ad incrociare il suo sguardo: è come se ci guardasse la fronte! La sua capacità di attenzione è, a questa età, solo di qualche decina di secondi, perché presto si stanca, ma per il genitore il sentirsi osservato è fondamentale per incentivare i futuri successivi “sguardi”. Lo sguardo contiene e veicola importanti emozioni, come l’attenzione e la premura del genitore, ma non solo, spesso possiamo davvero parlare di “sguardo d’amore”, ovvero quello sguardo che incoraggia, contempla, dice “sei ok”, vai bene come sei! E’ un sì senza se e senza ma: è questo messaggio che ricevuto ci fa vivere e crescere bene! Ora se l’organo della vista è l’organo di senso che matura più tardi rispetto agli altri organi di senso – gli occhi possono incominciare ad aprirsi intorno alla 25 settimana di età gestazionale e la vista di un lattante sarà uguale a quella di un adulto soltanto a sei mesi di vita – ci rendiamo conto di quale grande immaturità visiva possa avere un bambino nato molto prima del termine, ma “lo sguardo”, lo sguardo di cui abbiamo parlato prima, quello sguardo sarà per lui indispensabile, perché è uno sguardo che va oltre la sua possibilità di vedere, è lo sguardo di chi gli sta intorno con rispetto e aiuto, è anche quello sguardo che lo farà crescere più in fretta.

Elena: Mi fai venire in mente le parole dello psicanalista francese Delassus che dice “il bambino quando nasce entra nei nostri occhi, sono i nostri occhi che lo accolgono.” Lo trovo molto vero, oltre che molto bello… Roberto, puoi dirci come mai i neonati con te non piangono quasi mai ? Le mamme sperano sempre di trovarti di turno quando hanno bisogno di un neonatologo…

Roberto: Beh, il segreto è tutto qui: sto attento al neonato come se fosse un adulto.
Mi sono interrogato spesso cosa io faccia di cosi speciale che quando visito un bambino o un neonato si crea davvero un’ atmosfera assai diversa. Sono certo di non essere dotato di alcun potere magico, in realtà semplicemente “sto attento”, o almeno sto il più attento possibile, guardo sia il bambino sia i genitori. Ma non solo: posso aggiungere anche che “mi guardo”, mi osservo, osservo la mia postura, il mio respiro, sono concentrato o meglio ancora “centrato”. Anche nel fare i primi approcci, anzi proprio quelli, come spogliare il piccolo – sì preferisco farlo io perché è come iniziare una danza, non posso arrivare a interrompere i passi iniziati da altri – c’è l’importanza del rito di presentarsi, per esempio dire bene il nome che l’altro capisca. E poi pensate al significato di “spogliare”, togliere gli indumenti fino a scoprire l’intimità della pelle e l’intimità di tutto il suo corpo… Certo sono un medico e questi sono tutti gesti necessari per reperire le informazioni di cui ho bisogno, vedere bene tutto il corpo, tutta la pelle, escludere la presenza di eventuali macchie o altro (e poi e’ necessario per fare il famoso “peso nudo”) ma esiste sempre un “come” farlo: con rispetto!! Anche quando visito un bambino più grande il problema di spogliarlo spesso esiste: è la prima mossa e lì che ti guadagni la fiducia del tuo piccolo paziente, allora il mio suggerimento è che lo si possa fare chiedendogli prima permesso.

Elena: Già, su questo ho un ricordo relativo al mio periodo di tirocinio in Neonatologia come specializzanda: una volta, dopo che il corteo costituito da medici, infermiere e studenti, erano passati a visitare un neonato e l’avevano lasciato tutto nudo nella sua culla e il piccolino piangeva disperato. Allora io mi fermai a osservarlo e delicatamente lo rivestii: mi sembrava una questione di dignità e lui immediatamente si calmò e smise di piangere. Ricordo che pensai quanto poco i neonati sono considerati persone degne di rispetto quanto gli adulti…
Senti, tu che sei un Maestro del massaggio, che insegni anche agli operatori, ci puoi dire qualcosa sulla comunicazione ? La pelle è un potente mezzo di comunicazione…

Roberto: La pelle e’ il mezzo con cui possiamo metterci in una buona comunicazione fin da subito. Sviluppare una buona comunicazione non significa ancora “curare bene” in senso medico ma ne costituisce una sana premessa, che può aiutare anche la cura stessa.
Probabilmente oggi curiamo e curiamo tanto con l’aiuto di molti esami sia strumentali sia di laboratorio, probabilmente curiamo anche in modo efficace (con costi molto alti), ma utilizziamo pochissima comunicazione. O almeno lo sforzo maggiore della comunicazione si applica alla redazione dei consensi informati: documenti assai importanti ma che rivelano una comunicazione spesso “difensiva” più che mirante a far comprendere, a prendere decisioni spesso difficili insieme.
La cura in medicina prevede una prima fase di diagnosi e poi la terapia; nell’azzeccare la terapia e’ fondamentale avere prima ottime informazioni per formulare la diagnosi, se c’e una buona comunicazione e’ più probabile che riceviamo le informazioni giuste su cui formulare le nostre ipotesi diagnostiche e di conseguenza l’opportuna terapia. Quindi prima l’anamnesi e poi le altre informazioni – dalle indagini strumentali a quelle di laboratorio – aiutano i medici a formulare passo dopo passo il cammino necessario per la cura dei pazienti. Per noi medici che assistiamo i neonati spesso, più che di azzeccare la cura giusta, si tratta di ben conoscere i tempi che i bambini impiegano per adattarsi al nuovo ambiente oppure nel caso della nascita prematura rispettare l’immaturità di quei loro piccoli organi che naturalmente funzionano in modo inadeguato e offrire loro quel supporto indispensabile a colmare la differenza di tempo tra età corretta della nascita ed età reale.
Ecco quando il bimbo nasce, si taglia il collegamento con la placenta – la prima “madre nutritiva” – ed inizia il contatto con la sua parte esterna, la pelle: non più protetto dal liquido amniotico, non più sorretto dalle membrane e cullato dall’utero, il bimbo è ora libero, forse troppo libero, tanto che tutto questo spazio da gestire quasi gli fa girare la testa ed ecco allora che se una mano grande l’avvolge, un telo morbido e caldo lo avviluppa e lo rassicura, gli fa riprendere un po’ di equilibrio e di fiducia…
E se la nascita è prima del tempo? Allora tutto è accelerato, tutto viene stravolto, tutto viene fatto in fretta e con molto timore, tanto maggiormente pretermine sarà la nascita, tanto maggiore sarà la paura: la paura di non farcela!

Elena: E per i genitori ?

Roberto: Anche per loro, anzi per loro ancora di più!
La nascita inattesa, la nascita prematura in realtà è un lutto, non una nascita, quindi tutto il lavoro iniziale è sulla “rinascita”: uscire dal lutto, “ricostruire”, abbandonando per esempio il senso di colpa, così frequente in questi casi.
Ci sono tante piccole cose che si possono fare, che sono per il piccolo prematuro aiuti alla “ricostruzione: per esempio tenere un suo dito nel palmo della propria mano, tenere una mano ferma sul corpo del bambino e ascoltare il respiro o, ancora meno invadente, guardare il bambino e respirare in profondità pensando “ sei una vita bellissima !”, o tener i piedi ben saldi a terra, sentendone la base d’appoggio, e pensare “la tua vita “è presente” esiste!! E anche il solo piccolo muoversi e ondulare della tua gabbia toracica è un grande segno di vita”.

Elena: Per concludere, quale messaggio vorresti lanciare a chi ci legge, in modo particolare ai nostri colleghi medici o al personale infermieristico ?

Roberto: Vorrei che ci facessimo una serie di domande, tanto più frequentemente quanto più stiamo quotidianamente per motivi di lavoro a contatto con il bambino: credo ci faccia bene ricordare chi sono gli “altri” con cui trascorriamo tanto tempo, questi piccoli esseri che hanno iniziato a crescere, che sanno comunicare e che hanno bisogno di essere trattati nel modo giusto, con rispetto, responsabilità e con gentilezza per riuscire a vivere nel modo migliore.
Le domande fondamentali per rispettare la loro natura sono:
Che cosa fanno?
Che cosa provano?
Che cosa pensano?
Che cosa stanno dicendo?
Chi sono?

E poi, tu che lavori con loro chiediti : che tipo di fatica fai?
La tua fatica è stress? O solo consumo di energie commisurato a ciò che fai?
Lo sai che lo stress non fa crescere ma taglia le gambe a tutte le energie e modifica le nostre strutture cerebrali…
Quando si svolge un lavoro pesante e per lungo tempo l’unica soluzione è condividere il peso da portare, come quando si deve portare una valigia pesante e per una lunga distanza l’unica soluzione è augurarsi che la valigia abbia due manici e che il nostro amico di viaggio abbia circa la nostra altezza così ci daremo sostegno fisico e compagnia prima di decidere di fermarci per una bella sosta!
Con questa metafora intendo descrivere il lavoro di condivisione del genitore e dell’operatore sanitario (sia esso medico o infermiere) rispetto all’ansia oggettiva di un soggetto vivente così a rischio per la vita tutti i giorni, qualche volta anche più volte al giorno!
È questo cammino insieme che mi auguro possa nel futuro essere più presente e più frequente nei Reparti di Neonatologia.
Elena Balsamo: Grazie Roberto, è stato, come sempre, un vero piacere ascoltarti!